LE TEORIE BIOLOGICHE
DELL' AGRESSIVITA'
L’AGRESSIVITÀ
L'aggressività è una dimensione psicologica distruttiva presente nelle dinamiche del rapporto interumano, che può assumere volti diversi ed esprimersi nelle forme e situazioni più svariate, dai conflitti privati alle relazioni sociali, fino alle tensioni internazionali che provocano le guerre. In psicologia si è preferito parlare di aggressività piuttosto che di violenza anche se i due termini si possono assimilare e si è concentrata I'attenzione sulle manifestazioni comportamentali più facilmente osservabili. Gli psicologi hanno dato le più diverse definizioni e spiegazioni di questo fenomeno diffuso e complesso nel quale interagiscono la realtà psichica dell'individuo, le dinamiche di rapporto, i fattori sociali e culturali. Un elemento specifico è stato però generalmente individuato nella intenzionalità, per cui un comportamento è aggressivo quando è diretto contro l'altro con l'intenzione di nuocergli fisicamente o psicologicamente. Bisogna però considerare anche l'intenzionalità non cosciente, dal momento che spesso la volontà di nuocere all'altro sfugge alla coscienza, perché origina da problematiche psichiche profonde.
LA TEORIA DELL’ORIGINE BIOLOGICA
Fin dall'antichità è prevalsa nella cultura la concezione dell'aggressività come caratteristica innata della specie umana: la scissione tra la razionalità e gli affetti, che è all'origine della cultura occidentale, ha portato a identi¬ficare la violenza con la sfera dell'irrazionale e degli "istinti animali", che prenderebbero il sopravvento sulla ragione. La convinzione dell'origine innata della violenza si fonda sull'idea di una natura originariamente corrotta dell'essere umano che nel Cristianesimo è espressa con il concetto del peccato originale e nella psicoanalisi freudiana con la teoria dell'inconscio perverso fin dalla nascita. Con “L'origine della specie” del 1859 C. Darwin, sostenendo la discendenza dell'essere umano dall'animale attraverso una graduale evoluzione delle specie, avvalorò l'esistenza nell'uomo di una base riguardante l’istinto non civilizzata, che rappresenterebbe un residuo d'animalità. Nella storia dell'uomo dunque, l'aggressività è stata in genere considerata una “dimensione animale” innata e quindi un pericolo sempre in agguato che può mettere in crisi l'equilibrio razionale e che si può arginare solo attraverso il controllo della ragione. Questa credenza non ha però alcun fondamento perché, mentre l’aggressività animale è legata all'istinto di sopravvivenza e alle leggi di natura, la violenza umana deriva dall’istinto ed è finalizzata all'autoconservazione, ma è intenzionale e gratuita. Anche le ricerche etologiche di K. Lorenz hanno dimostrato che i comportamenti aggressivi degli animali sono istintivi, ereditari e utili alla specie: gli animali in genere non uccidono i membri della stessa specie e le loro manifestazioni aggressive spesso hanno una forma ritualizzata e inoffensiva, come accade quando combattono per la posizione gerarchica o per l'accoppiamento. Lorenz, peraltro, non distingue l'aggressività animale da quella umana che al contrario non ha radici biologiche ma psichiche e deriva da esperienze negative vissute nei rapporti con gli altri fin dalla prima infanzia, è quindi un fenomeno patologico che si può esprimere in forme e gradi diversi, ma non è l'essenza umana di base, poiché la natura dell'uomo è fondamentalmente sana. La distruttività che è implicita nei comportamenti violenti nega la disponibilità innata dell'uomo ad essere in rapporto con gli altri. Nel momento in cui egli lede il suo simile, fisicamente o psichicamente, rinuncia alla sua umanità ed è quindi distruttivo anche verso se stesso. Gli psicologi che sostengono la tesi del carattere ereditario dell'aggressività si sono avvalsi delle ricerche genetiche che hanno verificato in alcuni individui (lo 0,13% della popolazione maschile) la presenza di un'anomalia cromosomica per cui essi possiedono un cromosoma "y" in più rispetto alla norma, che è stato definito "cromosoma del crimine". A questa anomalia si associano, secondo rilevazioni statistiche, altezza al di sopra della norma, insufficienza mentale, violenza, tendenza al crimine. Ma, a riprova dell'ovvia considerazione che l'aggressività non è legata ad un fatto ereditario, è stato verificato che questa anomalia è assente in molti carcerati violenti e in tutte le donne, che non per questo sono immuni dalla violenza.
LA TEORIA DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE
Alla teoria dell'origine biologica si contrappone la tesi, sostenuta dalla teoria comportamentista negli anni Cinquanta-Sessanta, che il comportamento aggressivo venga socialmente appreso nel corso dello sviluppo infantile, ovvero derivi dai modelli esterni, familiari e culturali che condizionano il bambino e si imprimono nei suoi tratti caratteriali.
L’aggressività si crea dunque nel legame tra personalità ed ambiente sociale, quando le risposte aggressive ad alcuni stimoli sociali vengono progressivamente consolidate dai meccanismi di rinforzo. Un gruppo di psicologi statunitensi della Yale Universiy, tra cui G. Dolard e N. E. Miller, descrissero nell’opera “Frustrazione e aggressività” del 1963 la teoria dell’apprendimento sociale dell’aggressività. Essi utilizzano concetti psicoanalitici in prospettiva comportamentista, sostennero che le manifestazioni aggressive derivano sempre, nell’individuo, da uno stato di frustrazione, determinato da una difficoltà, da uno ostacolo che impedisce il raggiungimento di un obiettivo o la soddisfazione d’un desiderio. Dollard e Miller evidenziarono che spesso l’aggressività non si dirige contro la persona responsabile della frustrazione quando se ne temono le reazioni, ma viene spostata su chi è più debole, meno capace di reagire, in base alla dinamica del capro espiatorio. Osservarono anche che talora si creano delle reazioni a catena per cui, ad esempio, colui che è stato insultato dal capoufficio non osa reagire direttamente ma, tornando a casa, sfoga l’aggressività repressa sulla moglie, che a sua volta punisce ingiustamente il figlio, il quale magari troverà un capro espiatorio nel cane. Quando non si riesce ad individuare la causa reale di una frustrazione, si può determinare una rabbia "cieca" e indiscriminata che, non orientandosi contro un oggetto preciso, può rivolgersi contro il soggetto stesso e generare uno stato di impotenza e confusione. Osserviamo che questa teoria risulta riduttiva poiché tende a generalizzare un meccanismo che in effetti si attua di frequente, ma non considera altri elementi fondamentali nella dinamica dell'aggressività: il contesto, la situazione interna, la storia personale del soggetto, l’entità della frustrazione stessa. Inoltre, di fronte ad una situazione frustrante, la reazione aggressivo non è l’unica possibile; infatti talvolta si può rispondere con uno stato depressivo, oppure, nel migliore dei casi, con l’elaborazione dell'accaduto e la resistenza interna che evita la manifestazione di dinamiche aggressive. Nell'opera “Apprendimento sociale e sviluppo della personalità” del 1963, lo psicologo comportamentista A. Bandura spiega l'aggressività come il frutto di un processo di imitazione del comportamento altrui, che diviene un modello per la personalità in evoluzione. Egli aveva verificato questa tesi attraverso gli esperimenti effettuati nel 1961. In una scuola materna due gruppi di bambini assistettero per alcuni minuti a due diversi comportamenti di un adulto: nel primo gruppo un uomo colpiva violentemente una bambola urlando rabbiosamente, nel secondo, invece, manifestava un comportamento calmo e sereno. Successivamente i bambini vennero osservati in una situazione di gioco spontaneo con le bambole: il gruppo che aveva assistito alla scena violenta mostrava in genere atteggiamenti aggressivi verso la bambola e tendeva ad imitare i gesti e le parole brutali dell'adulto, gli altri, al contrario, giocavano serenamente senza manifestare alcuna forma di violenza. Ma la teoria dell'imitazione sociale dell’aggressività e fuorviante perchè si forma ad analizzare le reazioni comportamentali, senza considerare gli aspetti psicologici latenti che scatenano l’atteggiamento violento. In realtà il bambino viene influenzato dai modelli di comportamento aggressivo presenti nel suo ambiente di vita non attraverso un apprendimento automatico e un meccanismo imitativo, ma attraverso una dinamica inconscia più complessa che si crea nel rapporto con i genitori. Nella sua psiche si strutturano dimensioni di violenza quando egli, crescendo in un clima poco affettivo, carico di tensioni negative, non può sviluppare validamente la sua identità, è confuso ed insicuro, tende ad identificarsi con gli unici modelli, purtroppo negativi, che conosce. Ricordiamo inoltre che, al di là della violenza aperta e manifesta che rivela dimensioni sadomasochiste di rabbia e odio, esiste un'altra forma di violenza, tacita e invisibile, che deriva dalla anaffettività e si esercita nel rapporto interumano a livelli ben più profondi e lesivi sul piano psichico. Pensiamo, ad esempio, a quanto può essere distruttiva per la psiche del bambino una madre fredda e indifferente che, pur accudendo fisicamente il figlio, non sa dargli un minimo di interesse e di affetto, facendolo sentire solo e abbandonato. Questa carenza affettiva nei primi anni di vita può essere fonte di problematiche psicologiche e compromettere tutto lo sviluppo psichico. Oltre alle problematiche di carattere psicologico che il bambino vive all'interno della famiglia, vanno anche considerati i modelli e i messaggi "aggressivi" provenienti dalla realtà sociale e culturale che sono più difficili da rifiutare per un'identità fragile e confusa. La violenza entra quotidianamente nelle nostre case attraverso la televisione, la stampa, internet, i video-giochi che spesso veicolano l’esaltazione della potenza fisica e della legge del più forte e inducono al disprezzo per i più deboli. Quanto la cultura influisca sui comportamenti aggressivi è stato confermato anche dalle ricerche antropologiche che hanno scoperto grandi differenze nei costumi e nelle usanze tra le diverse popolazioni primitive alcune delle quali sono estremamente bellicose mentre altre sono del tutto pacifiche e talvolta non possiedono neppure la parola "guerra" nel loro vocabolario.
LA VIOLENZA NON è UNDESTINO BIOLOGICO
In conclusione possiamo osservare che le teorie che riconducono le tendenze aggressive alle esperienze negative della vita, e in particolare alle violenze subite nell'infanzia, si legano ad una concezione sulla natura umana meno pessimista di quella dell'ereditarietà biologica, perché lasciano aperta la speranza che attraverso gli interventi adeguati si possa arrivare a prevenire e a curare questa dimensione patologica, a livello sia individuale che sociale. E’ importante dunque che si affermi, sul piano culturale, l’idea che l'aggressività non è innata, non è un "destino biologico" e neppure il risultato di un semplice "apprendimento per imitazione", ma ha origini psichiche ben più profonde nelle dinamiche di rapporto interumano. Infatti le concezioni filosofiche e psicologiche che considerano la violenza innata nell'uomo, e quindi ineluttabile, hanno ostacolato per secoli la ricerca sui fattori che, solo dopo la nascita, intervengono a determinare questa dimensione patologica. Basti pensare al famoso carteggio del 1932 in cui A. Einstein domandava a S. Freud: “Vi è una possibilità di dirigere l'evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell'odio e della distruzione?” Il "padre della psicoanalisi" rispondeva avvalorando, sulla base della teoria della pulsione di morte, l’ipotesi del fisico secondo cui l’uomo ha dentro di se un "innato piacere di odiare e di distruggere". Oggi la ricerca psichiatrica più avanzata ha sovvertito questa tradizione di pensiero, trovando conferma nelle moderne acquisizioni della scienza: Il premio Nobel per la medicina, Rita Levi Montalcini ad esempio, ha sostenuto in un'intervista rilasciata nel 1987 che “non c'è nulla nel nostro patrimonio genetico che ci spinga all'aggressività, ad uccidere i nostri simili”.
LA PSICOLOGIA DELLE MASSE
La psicologia delle masse è la branca della psicologia sociale che studia il comportamento degli individui che si trovano ad interagire in un gruppo molto esteso, come accede ad esempio nelle manifestazioni di piazza o negli eventi collettivi. Lo studio della relazione tra l’individuo e la massa è stato improntato, fin dalle origini, da una concezione pessimistica che considera la socialità umana come potenzialmente pericolosa e distruttiva. L'interesse per questa disciplina nacque alla fine dell'Ottocento con gli studi sociologici dei positivisti francesi ed italiani sui movimenti di masse che si andavano diffondendo a seguito della rivoluzione industriale. Il progressivo affermarsi delle idee socialiste e l’ingresso sulla scena politica delle masse popolari, che rivendicavano i loro diritti ed esprimevano la rivolta nelle manifestazioni di piazza, inquietarono le classi al potere e influirono sulla nascita della psicologia collettiva. Gli episodi di violenza e il caos che emergevano nelle situazioni collettive vennero interpretate come l’irruzione di forze istintive e primordiali, cieche e irrazionali, favorite e potenziate dalla perdita dei meccanismi di controllo inibitori e dal contagio che si verifica nella folla. In Francia i sociologi G. Tarde e G. Le Bon teorizzarono una disposizione antropologica atavica all'omicidio che si scatena nella massa per un fenomeno di imitazione, suggestione e contagio morale, per cui si annullano le singole individualità e si crea un'omologazione, una passività, una sorta di sonnambulismo facilmente manipolabile dal capo. Le Bon sostenne, nel saggio “Psicologia delle folle del 1895”, che l'uomo nella folla regredisce, diventa barbaro, primitivo, preda di impulsi incontrollabili e si lascia dominare da un'entità sopraindividuale, la folla appunto: “Nell'anima collettiva, le attitudini intellettuali degli uomini si annullano e predominano i caratteri inconsci”. Secondo lo studioso, quindi, nella collettività gli individui “perdono la ragione” e diventano feroci e violenti perchè liberano l’inconscio, l’animale che è in noi. E, poichè non c'è nulla di più irrazionale della donna, egli identifica le caratteristiche proprie della folla, ovvero l’impulsività, la mutevolezza, la suggestionabilità, con la natura femminile. Fu proprio attraverso queste teorie che trovò giustificazione scientifica la politica antidemocratica dei settori più reazionari della società che chiedevano il controllo e la repressione dei movimenti sociali. Anche uno dei fondatori della moderna sociologia, E. Durkheim, teorizzò nelle sue opere. la natura originariamente antisociale e violenta dell'essere umano, arrivando a sostenere: “Nel modo più rapido possibile, all'essere egoista e asociale che sta per nascere, la società ne sovrapponga un’altro. Ecco qual’è il compito dell'educazione: “essa crea nell'uomo un essere nuovo”. La stessa psicoanalisi di S. Freud risentì l’influsso di queste correnti di pensiero, in “Psicologia delle masse e analisi dell'Io” del 1921 lo studioso, basandosi sul concetto di narcisismo primario, sostenne che esiste in ogni individuo un nucleo istintuale, criminale e antisociale che normalmente è tenuto sotto controllo dal Super-io attraverso la morale e le leggi. Ma quando l’individuo si trova immerso nella massa, che favorisce la regressione alle dimensioni più arcaiche, cadono i freni inibitori e questo lato oscuro può riemergere con irrefrenabile violenza. Secondo Freud, che non a caso dedica l'opera a Mussolini, la distruttiva istintualità irrazionale delle masse può essere educata e plasmata solo attraverso l'identificazione con il capo.