Cr: Fabretti, ricordare la deportazione ma poi tornare a vivere (2)
(ACON) Trieste, 30 gen - RCM - 'Ho passato degli anni un po'
duri quando ero giovane, perché al mio paese c'era la miseria'.
Parte così il racconto di Bruno Fabretti, di Nimis, che a
settembre compirà 96 anni, 50 dei quali - ha svelato al Consiglio
regionale dove ha testimoniato la sua esperienza di deportato -
passati a tacere; poi, nonostante il dolore ancora forte e il
ricordo di quell'odore di unghie bruciate che non lo abbandona
mai, ha iniziato a rievocare.
Quella di oggi è stata la sua 484esima testimonianza di cosa
significhi essere un deportato dei campi di sterminio nazisti. Ed
essere sopravvissuto, prima alle angherie e alla fame, poi al
ricordo che ti fa urlare la notte.
A soli 13 anni, Fabretti decide di arruolarsi e così nel novembre
del '39 si ritrova prima a Roma, poi in Albania, aggregato
all'11° Reggimento Alpini, Battaglione di Bassano; nel febbraio
del '40 è in Grecia, a proteggere il ponte di Corinto, poi a fare
l'infermiere all'ospedale di Atene. Quattro anni senza tornare a
casa, in balia dei tedeschi, prima amici e poi nemici -
sottolinea nel suo ricordo -, a cui la madrepatria ci aveva
abbandonati dopo il trattato dell'8 settembre con gli alleati.
Così, da prigioniero militare, finisce nel campo di
concentramento di Gudy, vicino ad Atene, poi in Polonia, a Lodz,
dove lavoravano da mattina a sera ma venivano trattati bene. Dopo
due mesi, fa amicizia con un triestino e decidono di scappare.
Dopo 54 giorni di cammino, arrivano nell'allora Jugoslavia; il
compagno va verso Trieste e lui arriva a Gorizia, diretto a
Nimis, ma il paese era occupato dai tedeschi. Allora decide di
andare a Porzus, dove fa il partigiano, prima con i Garibaldini,
poi con gli Osovani. Ma il 25 e il 26 settembre 1944 i tedeschi
invadono tutta la Padania, uccidono decine e decine di partigiani
e mettono a fuoco i nostri paesi: il 27 settembre bruciano
Sedilis, Torlano, Nimis, Attimis, Faedis, Torreano e Povoletto.
Allora scappa ancora, va a rifugiarsi a Taipana, ma vuole tornare
a Nimis, a ritrovare i suoi genitori. Vi trova, invece, solo
gente che scappa, con carretti e carriole carichi di vettovaglie,
tutti diretti a Tarcento. Viene arrestato dai tedeschi, come
tutti i giovani dai 15 ai 30 anni, portati in colonna per due
giorni e due notti verso Udine e poi rinchiusi nelle carceri di
via Spalato.
Il racconto di Fabretti prosegue con la deportazione a Dachau,
nelle baracche da 650 uomini ciascuna. Non ci facevano lavorare -
ricorda -. Stetti per due mesi senza fare nulla, dovevamo solo
restare fuori dalle baracche dalle 5 di mattina alle 9 di sera.
Dopo due mesi, lo mettono su uno dei tanti treni stipati e
puzzolenti e arriva a Neuengamme, vicino Amburgo, dove resterà
sino al 2 gennaio 1945. Qui tolgono a tutti i vestiti, li radono
e li disinfettano strofinandogli la pelle con delle scope, poi li
tatuano con un ago arroventato: 'Il mio numero è 62578, ed era
scritto anche sulla divisa a righe blu', ricorda Bruno. La cosa
più difficile era capire cosa dovevano fare, perché nessuno dei
prigionieri con lui parlava il tedesco 'e il kapò, un delinquente
tedesco responsabile della disciplina della baracca, ci legnava
sulla testa perché non capivamo i suoi comandi, non capivano i
numeri che avevamo sulle braccia e così ci bastonavano sempre.
'Da mangiare avevamo un pezzetto di pane e spalmavano una cosa
che credevamo margarina, invece era il frutto degli esperimenti
dei medici tedeschi con i cadaveri dei prigionieri.
'Ci portavano a lavorare al porto di Amburgo, anche quando a
mezzogiorno in punto gli americani lo bombardavano: i tedeschi si
rifugiavano, mentre noi dovevamo restare allo scoperto. Il
problema era quando uno di noi trovava una patata, perché ci
azzuffavamo perché volevamo mangiarla tutti.
'Nel buio delle nostre camerate, ci chiedevamo chissà se i nostri
sanno che siano qua e per tirarci su di morale e riuscire a
sopravvivere, ci inventavano che cosa avremmo mangiato a pranzo,
giocando a chi inventava il menù più buono. Dopo cinque anni che
non li vedevo, mi chiedevo se i miei ancora si ricordassero di me
e chiedevo a Dio: 'Ma cosa abbiamo fatto di male per meritare
tutto questo?'
'Dopo un po' di tempo non conoscevo più nessuno, perché lì era
tutto un andirivieni; così diventai amico dei deportati russi,
che un giorno decisero di fuggire proprio mentre cadevano le
bombe su Amburgo'.
I compagni scappano, ma Bruno resta ferito da una bomba a una
gamba e all'addome. Più morto che vivo, lo riportano alla
baracca, ma il kapò fa segno di no con la mano: il suo posto è
sul cumulo di cadaveri del campo, a più di 20 gradi sotto zero.
Ma sopravvive ancora e si ritrova a Bergen Belsen sino al 18
gennaio '45, poi arriva al campo di Buchenwald, dove diventa
addetto al forno crematorio, 'dove le ceneri venivano prese dai
contadini del luogo o gettate sulle strade per il ghiaccio come
oggi gettiamo il sale. Il problema maggiore era quando moriva un
ebreo arrivato da poco perché pesava ancora 60 o anche 70 chili e
avevamo più difficoltà a gettarlo nel forno'.
Lì Bruno resta prigioniero sino al 3 aprile, 'quando non sentimmo
più l'urlo del kapò.
'Giorni prima si udivano come rombi di temporale, invece erano
gli alleati che arrivavano. Restammo chiusi nella baracca per ore
per paura che le sentinelle ci sparassero, se uscivamo. Poi ci
facemmo coraggio e uscimmo. Non c'era nessuno e restammo lì per
tre giorni, mangiando briciole di pane. Io mi ricordai che nella
latrina i tedeschi gettavano le bucce delle patate e le
mescolavano alla melma per non farcele mangiare, ma io andai a
recuperarle, le strofinai sulla casacca e le mangiai. Cercavamo
anche erba da mangiare, ma non c'era nulla. Così il 9 aprile
decidemmo di scappare'.
Altre peripezie e Bruno si ritrova all'ospedale di Weimar, dove
un'infermiera gli toglie pulci e zecche dalle sopracciglia per
due ore. Lo prendono in consegna i russi, che lo trattano bene,
colpiti dai suoi 34 chili di peso. A fine aprile lo portano a
Odessa, dove resta sino al primo dicembre, poi raggiunge
Brindisi, dove dovrebbe restare in quarantena. Ma conosce un
altro friulano e, tolte le tute a righe, scappano su un treno
carico di tronchi che avevano capito andare a Nord. Si ritrovano
a Mestre e vengono fermati. Ma la loro storia impietosisce tutti
e così, con in tasca un biglietto regalato di prima classe,
ripartono alla volta di Udine e di lì verso Nimis. Al paese
scopre che il padre è stato impiccato dai cosacchi, la madre
scappata e il fratello ucciso in battaglia. Comincia la ricerca
della madre in tutti i paesi dove era stata: Tarcento, Buia, San
Daniele, Feletto Umberto.
'Stavo per uccidermi - dice Fabretti - quando il prete di Feletto
mi dice di sapere dov'è e così mi porta da lei. Ci siamo
abbracciati e pianto a lungo, tanto, io e la mia mamma. Tutti ci
hanno aiutati, ma io volevo ritornare a Nimis con lei'. Così
Bruno va a Udine a cercare un lavoro e si imbatte in un ex
compagno del campo di Dachau che lo fa diventare guardia giurata
presso la Brigata alpina Julia. Si presenta al comando, dove
conoscono la sua storia, così gli danno la paga di un mese (circa
2.000 lire) e lo rimandano a casa a riposare, dicendogli di
tornare dopo 30 giorni. Scopre, però, che per avere un lavoro
doveva presentare il documento che attestava di avere la quinta
elementare, e lui non lo aveva. Allora va a Tricesimo e con la
complicità di un maestro se lo procura, ma lo deve pagare sei
uova e un chilo di asparagi.
Il resto è storia recente e Bruno Fabretti oggi è sposato, ha tre
figlie e un figlio, ma soprattutto è sereno: 'Son tornato al mio
paese, ho ricostruito la mia casa e ho fatto famiglia, ma ho
perdonato - ci ha confessato - perché nel perdono ho trovato la
serenità e la voglia di vivere ancora'.
Subito dopo, il presidente Zanin ha chiesto all'Aula un minuto di
raccoglimento in piedi, 'in onore di coloro che hanno subito ciò
che ha subito Fabretti e non hanno avuto la possibilità di
perdonare'.
(foto; immagini alle tv)
(segue)