Cr: celebrazione Giorno del Ricordo, l'orazione di Raoul Pupo (2b)
(ACON) Trieste, 1 feb - MPB - "Le foibe furono tragedia e
terrore, ma non intaccarono in maniera sostanziale l'italianità
adriatica. Questa invece venne compromessa dalle politiche di
lungo periodo attuate dall'amministrazione jugoslava nei
territori rimasti sotto il suo controllo dopo gli accordi di
Belgrado del 9 giugno 1945.
"Scartata nel 1944 la strada dell'espulsione totale degli
italiani (come invece venne previsto per i tedeschi), la
strategia ufficiale jugoslava era quella della 'fratellanza
italo-slava'. Questa va intesa come una politica di integrazione
selettiva, che prevedeva appunto l'integrazione nel nuovo regime
di una minoranza nella minoranza (quelli che venivano chiamati
gli italiani 'onesti e buoni', disponibili a mobilitarsi per
l'annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo) e
la persecuzione della maggioranza della minoranza italiana (cioè
quelli che venivano chiamati i 'borghesi' ed i 'residui del
fascismo', che non desideravano né il socialismo, né l'annessione
alla Jugoslavia).
"Non si trattava quindi di una politica di eliminazione globale
della presenza italiana, quanto piuttosto di una politica di
distruzione dell'italianità adriatica, così come si era
storicamente configurata, perché giudicata incompatibile con le
finalità del nuovo regime. Questo infatti era promotore di una
duplice rivoluzione, nazionale e sociale, perché si rendeva
interprete delle storiche rivendicazioni dei movimenti nazionali
sloveno e croato, antagoniste a quelle del movimento italiano, e
perché intendeva rivoluzionare l'assetto tradizionale della
società, fondato sulla supremazia 'borghese' italiana.
"Agli italiani considerati accettabili veniva quindi proposta una
nuova forma di identità nazionale, in tutto e per tutto
subordinata e fondata sul rifiuto dell'esperienza storica del
Risorgimento e dell'unificazione italiana, perché quest'ultima
era sfociata nell'imperialismo, nel fascismo e nella scelta
capitalista del dopoguerra. Il regime quindi permetteva in linea
teorica che in Jugoslavia rimanessero alcuni italiani, ma solo se
nemici dichiarati dell'Italia. Inoltre, i diritti nazionali
venivano riconosciuti non a tutti coloro che si sentivano
italiani, ma solo agli italiani etnici, con l'esclusione quindi
di tutti quelli di anche lontana origine slava, che viceversa
dovevano venire 'aiutati', anche se non lo volevano, a
'recuperare' la loro identità originaria.
"Si trattava quindi di condizioni di accettabilità molto
stringenti, aggravate dal fatto che dell'applicazione della
politica della 'fratellanza', elaborata dai massimi vertici del
partito, fu incaricata la classe dirigente locale, che però ci
credeva poco. Questa infatti era composta dai quadri proveniente
dall'esperienza partigiana, che si distinguevano per l'estremismo
ideologico e nazionale e per l'incapacità di mediazione. Da ciò
un'infinita serie di abusi, puntualmente quanto inutilmente
registrata dai dirigenti di più alto livello, perché una classe
politica alternativa non esisteva.
I limiti intrinseci della politica della 'fratellanza' e la
modalità della sua applicazione vennero nel loro insieme
percepiti dalla popolazione italiana come un attacco globale alla
propria identità nazionale. A questo vanno aggiunte le condizioni
generali di difficoltà sperimentate da tutta la popolazione
locale, per le difficoltà economiche, l'applicazione del
'comunismo di guerra', la crisi della proprietà privata, la
pianificazione dell'agricoltura, la paralisi dell'industria, la
diffusione del lavoro coatto, l'oppressione poliziesca, la
persecuzione religiosa, la crisi del Cominform.
"Tutto questo determinò una situazione di invivibilità
generalizzata, che innescò fin dall'immediato dopoguerra una
serie di partenze più o meno legali e spesso di fughe
clandestine, purtroppo anche con esito infausto; ma soprattutto
trovò uno sfogo con l'applicazione del diritto di opzione per la
cittadinanza italiana previsto dal trattato di pace, che
consentiva il trasferimento legale nella Penisola.
"In questo modo, gli italiani finirono per trovarsi di fronte
all'alternativa fra perdita della terra natale e rinuncia alla
loro identità nazionale, intesa in senso lato, culturale, sociale
ed antropologico e non solo politico. La conseguenza fu una
decisione plebiscitaria per l'esodo, che trascinò con sé anche
alcune aliquote di non italiani che mal sopportavano il regime
comunista. Va subito precisato comunque, che quella dell'esodo
non può venir considerata una scelta libera da costrizione, bensì
una tipologia specifica di spostamento forzato di popolazione,
che è diversa nelle modalità dalla deportazione e
dall'espulsione, ma che conduce al medesimo risultato, creando
condizioni ambientali che inducono il gruppo bersaglio alla
partenza.
"L'esodo ha rappresentato la fine dell'italianità adriatica, ma
la non fine della tragedia degli italiani adriatici. Dopo il
dramma dell'esodo infatti, c'è stato quello dell'esilio.
L'esilio è sempre un'esperienza di sofferenza, che nel caso dei
giuliano-dalmati è stata spesso aggravata da forme di rifiuto,
sia di natura ideologica, da parte di chi li considerava fascisti
in fuga dal paradiso del socialismo, sia di natura antropologica,
in quanto diversi per dialetto e costumi, capitati in un'Italia a
sua volta gravemente immiserita dalla guerra. Tale fu la durezza
della loro condizione, che alcune migliaia di esuli non poterono
sopportarla e dovettero prendere la via dell'emigrazione
transoceanica.
"Solo poi, negli anni '60, gli anni delle provvidenze di stato e
del boom economico, arrivò l'integrazione degli esuli nella
realtà italiana: un'integrazione molto buona sotto il profilo
socio-economico, ma a prezzo della ferita della memoria. Nessuno,
o pochi appena, conoscevano infatti quali storie di dolore
stessero dietro la vita dei profughi ed essi stessi a lungo
preferirono non parlarne, perché la loro tragedia era fonte di
fastidio per gli italiani che desideravano gettarsi alle spalle i
ricordi bui della guerra, della sconfitta e del dopoguerra.
"L'atto riparatore da parte delle istituzioni è arrivato appena
nel 2004 con l'istituzione del Giorno del Ricordo. Certamente,
nulla può sanare del tutto quella ferita della memoria, così come
niente può ripagare della terra perduta; ma almeno celebrazioni
come quella odierna possono esprimere il riconoscimento pubblico
della sofferenza subìta da chi troppo ha pagato per voler
rimanere italiano.
"Al tempo stesso, la grande mobilitazione di iniziative che si è
realizzata sul territorio della Penisola testimonia l'impegno a
reincorporare nella memoria collettiva il dramma dell'italianità
adriatica.
"Nelle giornate memoriali, a lungo andare è sempre implicito il
rischio della ritualità, che genera assuefazione e disinteresse.
Nel nostro caso, questo è superabile attraverso due vie. La
prima, è quella di utilizzare una storia localizzata, com'è
quella della frontiera adriatica, quale chiave di accesso per
intendere la grande storia del '900: la crisi degli imperi
multinazionali, i limiti degli stati per la nazione, le politiche
di semplificazione nazionale, gli urbicidi (perché la sorte di
Zara, Fiume, Pola è simile a quella di Könisberg, Danzica,
Leopoli, Smirne).
"La seconda via, è quella di accogliere la lezioni che vengono da
questa storia dolente: prima fra tutte, la forza devastante
dell'intolleranza, che parte dalle parole ed arriva ad atti
estremi, e poi le conseguenze oscure della volontà di
omologazione ad ogni costo, che ha distrutto quel patrimonio
immenso di civiltà che in tutta l'Europa orientale era costituito
dalle sue diversità, e lungo l'Adriatico orientale era
rappresentato dall'italianità.
"Una lezione questa - ha concluso Raoul Pupo - tanto più
importante per noi, dal momento che quei fantasmi stanno
ricominciando ad agitarsi nella nostra società contemporanea".
(foto su www.consiglio.regione.fvg.it; immagini alle tv)
(segue)