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Cr: celebrazione Giorno del Ricordo, l'orazione di Raoul Pupo (2b)

01.02.2019
18:01
(ACON) Trieste, 1 feb - MPB - "Le foibe furono tragedia e terrore, ma non intaccarono in maniera sostanziale l'italianità adriatica. Questa invece venne compromessa dalle politiche di lungo periodo attuate dall'amministrazione jugoslava nei territori rimasti sotto il suo controllo dopo gli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945.

"Scartata nel 1944 la strada dell'espulsione totale degli italiani (come invece venne previsto per i tedeschi), la strategia ufficiale jugoslava era quella della 'fratellanza italo-slava'. Questa va intesa come una politica di integrazione selettiva, che prevedeva appunto l'integrazione nel nuovo regime di una minoranza nella minoranza (quelli che venivano chiamati gli italiani 'onesti e buoni', disponibili a mobilitarsi per l'annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo) e la persecuzione della maggioranza della minoranza italiana (cioè quelli che venivano chiamati i 'borghesi' ed i 'residui del fascismo', che non desideravano né il socialismo, né l'annessione alla Jugoslavia).

"Non si trattava quindi di una politica di eliminazione globale della presenza italiana, quanto piuttosto di una politica di distruzione dell'italianità adriatica, così come si era storicamente configurata, perché giudicata incompatibile con le finalità del nuovo regime. Questo infatti era promotore di una duplice rivoluzione, nazionale e sociale, perché si rendeva interprete delle storiche rivendicazioni dei movimenti nazionali sloveno e croato, antagoniste a quelle del movimento italiano, e perché intendeva rivoluzionare l'assetto tradizionale della società, fondato sulla supremazia 'borghese' italiana.

"Agli italiani considerati accettabili veniva quindi proposta una nuova forma di identità nazionale, in tutto e per tutto subordinata e fondata sul rifiuto dell'esperienza storica del Risorgimento e dell'unificazione italiana, perché quest'ultima era sfociata nell'imperialismo, nel fascismo e nella scelta capitalista del dopoguerra. Il regime quindi permetteva in linea teorica che in Jugoslavia rimanessero alcuni italiani, ma solo se nemici dichiarati dell'Italia. Inoltre, i diritti nazionali venivano riconosciuti non a tutti coloro che si sentivano italiani, ma solo agli italiani etnici, con l'esclusione quindi di tutti quelli di anche lontana origine slava, che viceversa dovevano venire 'aiutati', anche se non lo volevano, a 'recuperare' la loro identità originaria.

"Si trattava quindi di condizioni di accettabilità molto stringenti, aggravate dal fatto che dell'applicazione della politica della 'fratellanza', elaborata dai massimi vertici del partito, fu incaricata la classe dirigente locale, che però ci credeva poco. Questa infatti era composta dai quadri proveniente dall'esperienza partigiana, che si distinguevano per l'estremismo ideologico e nazionale e per l'incapacità di mediazione. Da ciò un'infinita serie di abusi, puntualmente quanto inutilmente registrata dai dirigenti di più alto livello, perché una classe politica alternativa non esisteva. I limiti intrinseci della politica della 'fratellanza' e la modalità della sua applicazione vennero nel loro insieme percepiti dalla popolazione italiana come un attacco globale alla propria identità nazionale. A questo vanno aggiunte le condizioni generali di difficoltà sperimentate da tutta la popolazione locale, per le difficoltà economiche, l'applicazione del 'comunismo di guerra', la crisi della proprietà privata, la pianificazione dell'agricoltura, la paralisi dell'industria, la diffusione del lavoro coatto, l'oppressione poliziesca, la persecuzione religiosa, la crisi del Cominform. "Tutto questo determinò una situazione di invivibilità generalizzata, che innescò fin dall'immediato dopoguerra una serie di partenze più o meno legali e spesso di fughe clandestine, purtroppo anche con esito infausto; ma soprattutto trovò uno sfogo con l'applicazione del diritto di opzione per la cittadinanza italiana previsto dal trattato di pace, che consentiva il trasferimento legale nella Penisola.

"In questo modo, gli italiani finirono per trovarsi di fronte all'alternativa fra perdita della terra natale e rinuncia alla loro identità nazionale, intesa in senso lato, culturale, sociale ed antropologico e non solo politico. La conseguenza fu una decisione plebiscitaria per l'esodo, che trascinò con sé anche alcune aliquote di non italiani che mal sopportavano il regime comunista. Va subito precisato comunque, che quella dell'esodo non può venir considerata una scelta libera da costrizione, bensì una tipologia specifica di spostamento forzato di popolazione, che è diversa nelle modalità dalla deportazione e dall'espulsione, ma che conduce al medesimo risultato, creando condizioni ambientali che inducono il gruppo bersaglio alla partenza.

"L'esodo ha rappresentato la fine dell'italianità adriatica, ma la non fine della tragedia degli italiani adriatici. Dopo il dramma dell'esodo infatti, c'è stato quello dell'esilio. L'esilio è sempre un'esperienza di sofferenza, che nel caso dei giuliano-dalmati è stata spesso aggravata da forme di rifiuto, sia di natura ideologica, da parte di chi li considerava fascisti in fuga dal paradiso del socialismo, sia di natura antropologica, in quanto diversi per dialetto e costumi, capitati in un'Italia a sua volta gravemente immiserita dalla guerra. Tale fu la durezza della loro condizione, che alcune migliaia di esuli non poterono sopportarla e dovettero prendere la via dell'emigrazione transoceanica.

"Solo poi, negli anni '60, gli anni delle provvidenze di stato e del boom economico, arrivò l'integrazione degli esuli nella realtà italiana: un'integrazione molto buona sotto il profilo socio-economico, ma a prezzo della ferita della memoria. Nessuno, o pochi appena, conoscevano infatti quali storie di dolore stessero dietro la vita dei profughi ed essi stessi a lungo preferirono non parlarne, perché la loro tragedia era fonte di fastidio per gli italiani che desideravano gettarsi alle spalle i ricordi bui della guerra, della sconfitta e del dopoguerra.

"L'atto riparatore da parte delle istituzioni è arrivato appena nel 2004 con l'istituzione del Giorno del Ricordo. Certamente, nulla può sanare del tutto quella ferita della memoria, così come niente può ripagare della terra perduta; ma almeno celebrazioni come quella odierna possono esprimere il riconoscimento pubblico della sofferenza subìta da chi troppo ha pagato per voler rimanere italiano.

"Al tempo stesso, la grande mobilitazione di iniziative che si è realizzata sul territorio della Penisola testimonia l'impegno a reincorporare nella memoria collettiva il dramma dell'italianità adriatica.

"Nelle giornate memoriali, a lungo andare è sempre implicito il rischio della ritualità, che genera assuefazione e disinteresse. Nel nostro caso, questo è superabile attraverso due vie. La prima, è quella di utilizzare una storia localizzata, com'è quella della frontiera adriatica, quale chiave di accesso per intendere la grande storia del '900: la crisi degli imperi multinazionali, i limiti degli stati per la nazione, le politiche di semplificazione nazionale, gli urbicidi (perché la sorte di Zara, Fiume, Pola è simile a quella di Könisberg, Danzica, Leopoli, Smirne). "La seconda via, è quella di accogliere la lezioni che vengono da questa storia dolente: prima fra tutte, la forza devastante dell'intolleranza, che parte dalle parole ed arriva ad atti estremi, e poi le conseguenze oscure della volontà di omologazione ad ogni costo, che ha distrutto quel patrimonio immenso di civiltà che in tutta l'Europa orientale era costituito dalle sue diversità, e lungo l'Adriatico orientale era rappresentato dall'italianità.

"Una lezione questa - ha concluso Raoul Pupo - tanto più importante per noi, dal momento che quei fantasmi stanno ricominciando ad agitarsi nella nostra società contemporanea".

(foto su www.consiglio.regione.fvg.it; immagini alle tv)

(segue)



Giorno del Ricordo, l'orazione dello storico Raoul Pupo in Consiglio regionale