Cr: celebrazione Giorno del Ricordo, l'orazione di Raoul Pupo (2a)
(ACON) Trieste, 1 feb - MPB - Lo storico Raoul Pupo,
nell'orazione ufficiale per la celebrazione del Giorno del
Ricordo nell'Aula del Consiglio regionale, ha proposto alcune
riflessioni sul significato profondo di questa giornata, alla
luce delle acquisizioni più mature della storiografia, partendo
da una domanda di fondo, ovvero che cos'è che si vuole davvero
commemorare nel Giorno del Ricordo.
'Al di là dell'elenco di eventi presente nella legge istitutiva,
che parla di foibe, di esodo e di altre vicende, quello su cui si
vuol richiamare all'attenzione dei connazionali è il fenomeno
storico di cui tutti quegli eventi sono espressione: vale a dire,
la catastrofe dell'italianità adriatica, cioè la sua scomparsa
dai territori dell'Adriatico orientale, ad eccezione delle
attuali province italiane di Trieste e Gorizia.
'Per evitare equivoci, precisiamo subito che per italianità
adriatica intendiamo la forma storicamente assunta nel XIX e XX
secolo da una presenza italiana di assai più lunga data sulle
sponde orientali dell'Adriatico.
'Connotati tipici di tale presenza secolare, fra loro
strettamente connessi, erano soprattutto: il carattere marittimo,
in un contesto storico in cui, fin dalla prima antichità,
ricchezze, idee, innovazione venivano dal mare;
l'inclusività, perché la sua origine era doppia: in parte etnica,
vale a dire la continuità con il popolamento romanzo, ben
evidente nelle principali città, e in parte frutto di
integrazione degli apporti provenienti sia dal mare (penisola
italica e Mediterraneo orientale) che dall'entroterra;
il carattere urbano, anche questo in continuità con la tradizione
prima romana e poi dei comuni medievali italiani, secondo la
quale la città è il fulcro di quella che, appunto, viene chiamata
vita civile o, più semplicemente, civiltà;
il potere, vale a dire l'egemonia sociale, culturale e politica
Le comunità italiane così connotate cominciarono a
nazionalizzarsi prima culturalmente e poi anche politicamente nel
corso dell'800, ma tale processo s'intrecciò con un altro
processo simile, quello dello slavismo adriatico, che presentava
caratteristiche diverse: era espressione dell'entroterra, con le
sue peculiarità linguistiche e culturali; era etnicista, cioè
aveva adottato la concezione tedesca della nazione (sangue e
terra), mentre gli italiani facevano riferimento alla concezione
volontarista di origine francese (plebiscito di ogni giorno);
partiva da una condizione di assoluta subordinazione sociale,
culturale e linguistica, ma poteva contare su di una numerosità
decisamente superiore.
'Quello adriatico era quindi un tipico caso di nazionalizzazione
parallela competitiva sul medesimo territorio, come in tante
altre parti dell'Impero asburgico, e questo generava conflitti,
come nel resto dell'Impero.
'La prima crisi dell'italianità adriatica si ebbe già a fine '800
in Dalmazia, perché la nazionalizzazione delle masse croate,
combinata con l'allargamento del diritto di voto anche ai meno
abbienti, portò rapidamente per gli italiani alla perdita
dell'amministrazione dei comuni maggiori, con l'esclusione di
Zara.
'La situazione era più favorevole agli italiani in Istria e
Trieste, ma anche qui il prendere corpo di quella che veniva
avvertita come la 'minaccia slava' suscitò un'ampia mobilitazione
per la 'difesa dell'italianità' e spinse alcuni gruppi,
soprattutto giovanili, verso l'irredentismo, vale a dire a
battersi per il distacco del territorio giuliano dall'Impero
asburgico e l'annessione alla Madrepatria italiana.
'Dopo la I guerra mondiale l'italianità adriatica risultò
trionfante nella Venezia Giulia, a Fiume ed a Zara, annesse
appunto all'Italia, mentre completò la sua crisi nei territori
dalmati assegnati al Regno dei serbi, croati e sloveni. Il
collasso dell'italianità dalmata rendeva evidente come il
passaggio da uno stato multinazionale come l'Impero asburgico, ad
uno stato per la nazione, come la Jugoslavia, si traduceva in un
netto peggioramento delle condizioni delle comunità nazionali
minoritarie, nonostante alcune forme di protezione
internazionale. La conferma viene da quel che successe in Italia,
dove forme di tutela non esistevano ed anzi lo stato fascista
avviò una politica sistematica di distruzione delle identità
nazionali concorrenti a quella italiana. Ci riuscì in parte, ed
ebbe successo soprattutto nel convincere le popolazioni slovena e
croata dell'equivalenza fra italianità e fascismo.
'Durante la seconda guerra mondiale l'italianità adriatica tentò
di assumere una dimensione imperiale, con le annessioni in
Slovenia, Croazia e Montenegro, destinate a completare il dominio
del 'mare nostrum' assieme al controllo italiano dell'Albania e
delle isole Ionie. L'Italia fascista non era però in grado di
reggere tale dimensione e tutta la costruzione imperiale collassò
dopo due anni, l'8 settembre del 1943, trascinando con sé nel
disastro buona parte dell'italianità adriatica.
'La seconda guerra mondiale rappresenta quindi il momento di
svolta nella storia dell'italianità di frontiera e ciò per almeno
tre ragioni: perchè ribaltò gli equilibri di potenza fra Italia e
Jugoslavia; rovesciò gli equilibri di potere sul territorio a
danno degli italiani; fece compiere un salto di qualità nell'uso
della violenza politica: mentre prima della guerra la dimensione
prevalente era stata quella dello squadrismo, con la guerra, che
sul fronte orientale ebbe caratteristiche di sterminio, si passò
allo stragismo.
'Possiamo considerare la capitolazione italiana del settembre
1943 come l'inizio della fine dell'italianità adriatica, per due
motivi principali: 1) italiani passarono dall'egemonia del potere
alla mancanza di potere: il controllo del territorio e la
capacità decisionale vennero infatti da quel momento contesi fra
tedeschi e jugoslavi, mentre gli italiani poterono solo cercare
di infilarsi negli interstizi; 2) tutta l'area di frontiera uscì
quasi completamente dalle dinamiche della storia italiana, per
entrare in quelle della storia jugoslava.
'Quest'ultimo aspetto lo vediamo benissimo nelle crisi chiamata
delle 'foibe istriane' del settembre '43. In questo caso,
l'occupazione partigiana/jugoslava di buona parte dell'Istria
portò all'estensione alla Venezia Giulia delle pratiche di lotta
comunemente adottate dai partigiani nel corso della guerra di
liberazione/guerra civile/rivoluzione in Jugoslavia. Tali
pratiche prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente
liberate, l'immediata eliminazione dei 'nemici del popolo'.
Questa era una categoria di origine bolscevica e staliniana
estremamente flessibile, che nel caso dell'Istria riguardava
alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente
invisi ai partigiani, per il loro ruolo nel regime e nella
società locale e comunque ritenuti pericolosi per il nuovo
potere.
'Quella delle foibe fu quindi una violenza dall'alto, programmata
ed organizzata, anche se poi gestita in un clima di grande
confusione, lasciando spazio a motivazioni personali, d'interesse
e criminali.
'Le vittime furono alcune centinaia, il che ci impone di parlare
di stragi e al tempo stesso di notare come gli obiettivi della
repressione fossero circoscritti, per ragioni contingenti, a
quelli che venivano considerati i casi più urgenti. Nondimeno, i
propositi e la loro attuazione risultano esemplificativi di
quello che era un disegno generale: vale a dire non
l'eliminazione della presenza italiana tout court, ma la
distruzione dell'italianità, in quanto storicamente connessa con
il potere.
'Le foibe istriane, possiamo anche considerarle come una prova
generale di dopoguerra; e difatti, nel maggio 1945, al momento
dell'occupazione jugoslava della Venezia Giulia, noi vediamo la
ripresa delle medesime dinamiche dell'autunno '43, questa volta
su scala più ampia e con l'utilizzo della forza del nuovo stato
comunista jugoslavo. Nuovamente, si ebbe l'estensione alla
Venezia Giulia delle pratiche repressive connesse alla presa del
potere in Jugoslavia da parte del fronte di liberazione a guida
comunista. Questa fu accompagnata da una grande ondata di
violenza politica che nell'arco di poche centinaia di chilometri
fra l'Isonzo, la Slovenia e la Croazia fece circa 9.000 morti fra
gli sloveni domobranzi, almeno 60.000 fra i croati ustascia ed
alcune migliaia fra gli italiani (contando sia gli infoibati che
i deceduti in prigionia o scomparsi nel nulla).
'Si trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai
vertici del potere politico jugoslavo fin dall'autunno del 1944,
organizzata e gestita da organi dello stato (Ozna). Sta in questo
la sua differenza sostanziale con l'ondata di violenza politica
del dopoguerra nell'Italia settentrionale.
'Quest'ultima infatti può venir interpretata come resa dei conti
di una guerra civile iniziata negli anni '20 ed anche come
tentativo di alcuni segmenti del partigianato comunista di
influire sui termini della lotta politica in Italia, ma non era
inserita in alcun disegno strategico di natura rivoluzionaria,
perché il PCI in Italia non doveva fare la rivoluzione.
'Viceversa, nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia,
quella violenza era strumento fondamentale per il successo della
rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime.
'Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità
punitive nei confronti di chi era accusato di crimini nei
confronti dei popoli sloveno e croato (quadri fascisti, uomini
degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex
squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva finalità epurative
dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli
antifascisti italiani contrari all'annessione alla Jugoslavia, ed
aveva finalità intimidatorie nei confronti della popolazione
locale, per dissuaderla dall'opporsi al nuovo ordine'.
(segue)