News


Cr: celebrazione Giorno del Ricordo, l'orazione di Raoul Pupo (2a)

01.02.2019
18:01
(ACON) Trieste, 1 feb - MPB - Lo storico Raoul Pupo, nell'orazione ufficiale per la celebrazione del Giorno del Ricordo nell'Aula del Consiglio regionale, ha proposto alcune riflessioni sul significato profondo di questa giornata, alla luce delle acquisizioni più mature della storiografia, partendo da una domanda di fondo, ovvero che cos'è che si vuole davvero commemorare nel Giorno del Ricordo. 'Al di là dell'elenco di eventi presente nella legge istitutiva, che parla di foibe, di esodo e di altre vicende, quello su cui si vuol richiamare all'attenzione dei connazionali è il fenomeno storico di cui tutti quegli eventi sono espressione: vale a dire, la catastrofe dell'italianità adriatica, cioè la sua scomparsa dai territori dell'Adriatico orientale, ad eccezione delle attuali province italiane di Trieste e Gorizia.

'Per evitare equivoci, precisiamo subito che per italianità adriatica intendiamo la forma storicamente assunta nel XIX e XX secolo da una presenza italiana di assai più lunga data sulle sponde orientali dell'Adriatico.

'Connotati tipici di tale presenza secolare, fra loro strettamente connessi, erano soprattutto: il carattere marittimo, in un contesto storico in cui, fin dalla prima antichità, ricchezze, idee, innovazione venivano dal mare; l'inclusività, perché la sua origine era doppia: in parte etnica, vale a dire la continuità con il popolamento romanzo, ben evidente nelle principali città, e in parte frutto di integrazione degli apporti provenienti sia dal mare (penisola italica e Mediterraneo orientale) che dall'entroterra; il carattere urbano, anche questo in continuità con la tradizione prima romana e poi dei comuni medievali italiani, secondo la quale la città è il fulcro di quella che, appunto, viene chiamata vita civile o, più semplicemente, civiltà; il potere, vale a dire l'egemonia sociale, culturale e politica Le comunità italiane così connotate cominciarono a nazionalizzarsi prima culturalmente e poi anche politicamente nel corso dell'800, ma tale processo s'intrecciò con un altro processo simile, quello dello slavismo adriatico, che presentava caratteristiche diverse: era espressione dell'entroterra, con le sue peculiarità linguistiche e culturali; era etnicista, cioè aveva adottato la concezione tedesca della nazione (sangue e terra), mentre gli italiani facevano riferimento alla concezione volontarista di origine francese (plebiscito di ogni giorno); partiva da una condizione di assoluta subordinazione sociale, culturale e linguistica, ma poteva contare su di una numerosità decisamente superiore.

'Quello adriatico era quindi un tipico caso di nazionalizzazione parallela competitiva sul medesimo territorio, come in tante altre parti dell'Impero asburgico, e questo generava conflitti, come nel resto dell'Impero.

'La prima crisi dell'italianità adriatica si ebbe già a fine '800 in Dalmazia, perché la nazionalizzazione delle masse croate, combinata con l'allargamento del diritto di voto anche ai meno abbienti, portò rapidamente per gli italiani alla perdita dell'amministrazione dei comuni maggiori, con l'esclusione di Zara.

'La situazione era più favorevole agli italiani in Istria e Trieste, ma anche qui il prendere corpo di quella che veniva avvertita come la 'minaccia slava' suscitò un'ampia mobilitazione per la 'difesa dell'italianità' e spinse alcuni gruppi, soprattutto giovanili, verso l'irredentismo, vale a dire a battersi per il distacco del territorio giuliano dall'Impero asburgico e l'annessione alla Madrepatria italiana.

'Dopo la I guerra mondiale l'italianità adriatica risultò trionfante nella Venezia Giulia, a Fiume ed a Zara, annesse appunto all'Italia, mentre completò la sua crisi nei territori dalmati assegnati al Regno dei serbi, croati e sloveni. Il collasso dell'italianità dalmata rendeva evidente come il passaggio da uno stato multinazionale come l'Impero asburgico, ad uno stato per la nazione, come la Jugoslavia, si traduceva in un netto peggioramento delle condizioni delle comunità nazionali minoritarie, nonostante alcune forme di protezione internazionale. La conferma viene da quel che successe in Italia, dove forme di tutela non esistevano ed anzi lo stato fascista avviò una politica sistematica di distruzione delle identità nazionali concorrenti a quella italiana. Ci riuscì in parte, ed ebbe successo soprattutto nel convincere le popolazioni slovena e croata dell'equivalenza fra italianità e fascismo.

'Durante la seconda guerra mondiale l'italianità adriatica tentò di assumere una dimensione imperiale, con le annessioni in Slovenia, Croazia e Montenegro, destinate a completare il dominio del 'mare nostrum' assieme al controllo italiano dell'Albania e delle isole Ionie. L'Italia fascista non era però in grado di reggere tale dimensione e tutta la costruzione imperiale collassò dopo due anni, l'8 settembre del 1943, trascinando con sé nel disastro buona parte dell'italianità adriatica.

'La seconda guerra mondiale rappresenta quindi il momento di svolta nella storia dell'italianità di frontiera e ciò per almeno tre ragioni: perchè ribaltò gli equilibri di potenza fra Italia e Jugoslavia; rovesciò gli equilibri di potere sul territorio a danno degli italiani; fece compiere un salto di qualità nell'uso della violenza politica: mentre prima della guerra la dimensione prevalente era stata quella dello squadrismo, con la guerra, che sul fronte orientale ebbe caratteristiche di sterminio, si passò allo stragismo.

'Possiamo considerare la capitolazione italiana del settembre 1943 come l'inizio della fine dell'italianità adriatica, per due motivi principali: 1) italiani passarono dall'egemonia del potere alla mancanza di potere: il controllo del territorio e la capacità decisionale vennero infatti da quel momento contesi fra tedeschi e jugoslavi, mentre gli italiani poterono solo cercare di infilarsi negli interstizi; 2) tutta l'area di frontiera uscì quasi completamente dalle dinamiche della storia italiana, per entrare in quelle della storia jugoslava.

'Quest'ultimo aspetto lo vediamo benissimo nelle crisi chiamata delle 'foibe istriane' del settembre '43. In questo caso, l'occupazione partigiana/jugoslava di buona parte dell'Istria portò all'estensione alla Venezia Giulia delle pratiche di lotta comunemente adottate dai partigiani nel corso della guerra di liberazione/guerra civile/rivoluzione in Jugoslavia. Tali pratiche prevedevano nelle zone anche solo temporaneamente liberate, l'immediata eliminazione dei 'nemici del popolo'. Questa era una categoria di origine bolscevica e staliniana estremamente flessibile, che nel caso dell'Istria riguardava alcuni segmenti di classe dirigente italiana particolarmente invisi ai partigiani, per il loro ruolo nel regime e nella società locale e comunque ritenuti pericolosi per il nuovo potere.

'Quella delle foibe fu quindi una violenza dall'alto, programmata ed organizzata, anche se poi gestita in un clima di grande confusione, lasciando spazio a motivazioni personali, d'interesse e criminali.

'Le vittime furono alcune centinaia, il che ci impone di parlare di stragi e al tempo stesso di notare come gli obiettivi della repressione fossero circoscritti, per ragioni contingenti, a quelli che venivano considerati i casi più urgenti. Nondimeno, i propositi e la loro attuazione risultano esemplificativi di quello che era un disegno generale: vale a dire non l'eliminazione della presenza italiana tout court, ma la distruzione dell'italianità, in quanto storicamente connessa con il potere.

'Le foibe istriane, possiamo anche considerarle come una prova generale di dopoguerra; e difatti, nel maggio 1945, al momento dell'occupazione jugoslava della Venezia Giulia, noi vediamo la ripresa delle medesime dinamiche dell'autunno '43, questa volta su scala più ampia e con l'utilizzo della forza del nuovo stato comunista jugoslavo. Nuovamente, si ebbe l'estensione alla Venezia Giulia delle pratiche repressive connesse alla presa del potere in Jugoslavia da parte del fronte di liberazione a guida comunista. Questa fu accompagnata da una grande ondata di violenza politica che nell'arco di poche centinaia di chilometri fra l'Isonzo, la Slovenia e la Croazia fece circa 9.000 morti fra gli sloveni domobranzi, almeno 60.000 fra i croati ustascia ed alcune migliaia fra gli italiani (contando sia gli infoibati che i deceduti in prigionia o scomparsi nel nulla).

'Si trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici del potere politico jugoslavo fin dall'autunno del 1944, organizzata e gestita da organi dello stato (Ozna). Sta in questo la sua differenza sostanziale con l'ondata di violenza politica del dopoguerra nell'Italia settentrionale.

'Quest'ultima infatti può venir interpretata come resa dei conti di una guerra civile iniziata negli anni '20 ed anche come tentativo di alcuni segmenti del partigianato comunista di influire sui termini della lotta politica in Italia, ma non era inserita in alcun disegno strategico di natura rivoluzionaria, perché il PCI in Italia non doveva fare la rivoluzione.

'Viceversa, nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia, quella violenza era strumento fondamentale per il successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime.

'Nei territori adriatici quindi lo stragismo aveva finalità punitive nei confronti di chi era accusato di crimini nei confronti dei popoli sloveno e croato (quadri fascisti, uomini degli apparati di sicurezza e delle istituzioni italiane, ex squadristi, collaboratori dei tedeschi); aveva finalità epurative dei soggetti ritenuti pericolosi, come ad esempio gli antifascisti italiani contrari all'annessione alla Jugoslavia, ed aveva finalità intimidatorie nei confronti della popolazione locale, per dissuaderla dall'opporsi al nuovo ordine'.

(segue)



Giorno del Ricordo, l'orazione dello storico Raoul Pupo in Consiglio regionale