Per la prima volta in Italia la ricostruzione di un'area colpita da catastrofe è stata portata
a termine e soprattutto in tempi ragionevoli. A dieci anni dal sisma la gran parte dei problemi erano stati risolti.
Abitazioni, servizi, fabbriche, infrastrutture erano di nuovo in attività. Il merito va attribuito al
decentramento tempestivamente deciso dal Governo, all'azione congiunta di Regione e Comuni, ma soprattutto alla
determinazione delle popolazioni sinistrate di non interrompere il cammino di sviluppo recentemente intrapreso.
I sindaci sotto questo profilo furono protagonisti della grande trasformazione del Friuli terremotato. Le esigenze
dei cittadini trovarono un interprete e un mediatore. Si trattò infatti di riconoscere la rovina dei vecchi
insediamenti, di valutare che cosa si doveva rimettere in piedi e che cosa si doveva abbandonare. La priorità
assegnata alle fabbriche e la scelta dei centri di vita tradizionali si allinearono perfettamente con l'industrializzazione
diffusa che caratterizzava la crescita di buona parte dell'area terremotata. Lo sviluppo delle vie di comunicazione e
il sostegno di nuovi centri di ricerca completarono un progetto di trasformazione che coinvolse l'intera regione e
Udine in particolare. Il capoluogo friulano dimostrò infatti di possedere conoscenze e professionalità
in grado di affrontare emergenza e ricostruzione vera e propria. L'accordo tra forze politiche favorì la
collaborazione tra coloro che guidarono la ripresa. Il ripristino delle attività produttive e delle strutture
edilizie fu d'altro canto un momento della ricostruzione. Il patrimonio culturale fu salvaguardato ad ogni livello.
L'Università di Udine completò il quadro delle strutture a sostegno delle imprese, del territorio,
dell'identità culturale. I processi di sviluppo furono assecondati e confermarono il successo della ricostruzione,
che in Italia si presentò come modello, come risultato da imitare. In montagna dove i muri di ogni più
sperduto casale furono riedificati proseguì l'abbandono degli insediamenti. Uno specifico piano di salvaguardia
non fu approntato. A parte isolate proposte, incentrate di norma su vocazioni turistiche, si accettarono come fatali le
tendenze all'inselvatichimento dei versanti e al rapido decremento demografico.
L'area sinistrata dal sisma è la stessa che subì le distruzioni dell'occupazione austriaca dopo Caporetto
e i più duri bombardamenti della seconda guerra mondiale. Restò (fortunatamente) voce vuota quel "di besoi",
che da quelle esperienze nasceva, perchè lo Stato italiano fu questa volta tempestivo e generoso negli aiuti.
Nel caso dei Comuni alpini mancò un programma di rinascita precedentemente elaborato. I paesaggi della fatica
costante potevano essere concepiti unicamente come parchi naturali ed erano rifiutati dagli stessi abitanti della montagna.
Si trattò anche in questo caso di un carattere della ricostruzione, di un problema per certi aspetti nuovo,
del nuovo Friuli.
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